“Memorie corte. Le società di antico regime e l’esperienza delle catastrofi” – Domenico Cecere – Università di Napoli “Federico II” (MAGGIO 2021)

Memorie corte. Le società di antico regime e l’esperienza delle catastrofi

Domenico Cecere

Cosa abbiamo imparato dall’esperienza degli ultimi quattro secoli di ricorrenti epidemie letali? Se lo chiede Frank M. Snowden nelle prime pagine della sua storia sociale delle malattie infettive, dalla peste nera agli inizi del XXI secolo. Epidemics and Society è andato in stampa a ottobre 2019: nessuno allora poteva prevedere la tempesta che di lì a breve, a partire probabilmente da un’area dello Hubei, avrebbe investito con folgorante rapidità l’intero pianeta. Eppure, per quanto statisticamente improbabile, la possibilità che un nuovo virus fortemente contagioso aggredisse la specie umana era contemplata da molti esperti di Microbiologia e di Sanità pubblica, almeno come ipotesi astratta. Infatti, se nei decenni centrali del XX secolo autorevoli istituzioni sanitarie in un eccesso di trionfalismo avevano dichiarato che le malattie infettive sarebbero state presto debellate e che in futuro l’umanità non avrebbe conosciuto nuove epidemie, a partire dagli ultimi decenni del secolo nuovi virus e batteri si sono incaricati di smentire quelle avventate previsioni, mentre altri che sembravano debellati sono mutati rivelandosi resistenti ai farmaci. Ci si è resi conto che il progresso delle conoscenze biomediche, delle tecniche diagnostiche e delle terapie non sempre consentono di mettere al riparo l’umanità da nuovi contagi; che di fronte a un microorganismo che fa il salto di specie le società del XXI secolo, con le loro avanzate conoscenze e sofisticate tecniche, possono scoprirsi, sotto molti aspetti, non meno vulnerabili delle società dei secoli passati.

Sicché non ha troppo sorpreso il profluvio di confronti tra presente e passato che giornali, radio, TV e social media hanno proposto soprattutto nei primi mesi della pandemia. Di fronte a uno scenario ignoto, fosco, doloroso, e al rapido e talora scomposto susseguirsi delle misure di contrasto, si sono moltiplicati i tentativi – a volte illuminanti, più spesso maldestri – di ricercare nel passato similitudini e differenze con ciò che vedevamo sinistramente delinearsi davanti ai nostri occhi. Ha prevalso però quasi sempre, almeno nei media più seguiti, un uso puramente ornamentale o strumentale della Storia, impiegata ancora una volta come repertorio di curiosità o come galleria di quadri luttuosi, cui attingere per ricordare che nonostante il passare dei secoli certe tragedie si ripetono in modi sorprendentemente simili[1]. Schiacciate su un passato senza profondità, epidemie e calamità hanno finito così per apparire piuttosto come deviazioni dal normale corso della civiltà, quasi occasionali incursioni nella storia di un Male al di fuori del tempo.

Il confronto con il passato consente invece d’indagare in maniera ben altrimenti attenta e vantaggiosa le trasformazioni nel corso dei secoli, di rilevare le differenze tra la nostra epoca e quelle che ci hanno preceduto: non solo sul piano delle conoscenze scientifiche e delle misure igienico-sanitarie, ma anche su quello dei comportamenti collettivi, dei dispositivi di controllo, delle mentalità etc. Il problema posto dalle prime pagine del libro di Snowden apre in questo senso un ulteriore spazio di riflessione: cosa possono imparare le società dall’esperienza dei disastri del passato, per mettere in prospettiva il presente e immaginare il futuro? E, per analogia, consente agli storici dell’età moderna di chiedersi: in che forme le società del passato hanno conservato o rielaborato il ricordo delle calamità che avevano segnato la loro storia, e che uso ne hanno fatto?

Negli studi sulle società di antico regime ha prevalso a lungo una visione secondo cui i disastri – fossero essi d’origine biologica o ambientale, o persino sociale e politica, come guerre, incursioni corsare, scorrerie d’eserciti nemici – erano interpretati come manifestazioni della volontà divina e perciò accettati con fatalismo e rassegnazione. Indubbiamente, le letture provvidenzialistiche della catastrofe erano prevalenti in età moderna, soprattutto nella cosiddetta età confessionale: se qualsiasi evento (individuale o collettivo, favorevole o nefasto) era l’effetto dell’intervento divino nel mondo, a maggior ragione lo erano fenomeni naturali straordinari, difficilmente spiegabili, dalle conseguenze luttuose. Pressoché ogni tipo di discorso su tali fenomeni era inquadrato in uno schema esplicativo che, riconducendo gli eventi naturali a delle cause morali, li interpretava come punizioni o come moniti inviati dal cielo. Perciò quando si verificava una sciagura collettiva raramente gli autori di cronache cittadine, composizioni in versi, avvisi o sermoni raramente evocavano calamità analoghe che, in un passato più o meno lontano, avevano colpito quella città o quel territorio; piuttosto, chi voleva offrire agli ascoltatori e ai lettori elementi per interpretare quell’evento, e insieme per ammonirli, tendeva ad accostarlo ai flagelli narrati nelle Sacre Scritture o nelle vite dei santi, manifestazioni per eccellenza della collera di Dio e del suo intervento nelle umane vicende.

Le ricerche degli ultimi decenni hanno messo in discussione o sfumato tali schemi e hanno riportato in luce ben più articolati modi di leggere le avversità della natura e di reagire a esse. Il pervasivo e duraturo paradigma provvidenzialistico, che riconduceva i fenomeni naturali alla volontà divina, non impedì lo sviluppo di spiegazioni delle catastrofi che facevano leva sulle cause fisiche (le cause secundae nella filosofia tomistica, distinte dalla causa prima che è Dio); in diversi scienziati, filosofi, predicatori del XVII e del XVIII secolo le interpretazioni teologiche e quelle naturalistiche di tali eventi poterono coesistere senza sembrare contraddittorie. Analogamente, il costante ricorso al soprannaturale per spiegare gli eventi estremi e per difendersene non deve indurre a trascurare l’esistenza di pratiche di prevenzione e di risposta basate sull’osservazione e sull’esperienza: lungi dall’essere passive e fataliste di fronte alle calamità, le società di antico regime si sono spesso dimostrate capaci di mitigare i rischi e di gestire l’emergenza e la ricostruzione grazie alla conoscenza del territorio che avevano accumulato nel corso delle generazioni (Walter 2009, pp. 63-77). Negli ultimi anni varie ricerche condotte soprattutto su diverse aree dell’Europa centrale hanno esplorato lo sviluppo di comportamenti adattivi e preventivi suggeriti dalla trasmissione della memoria dei disastri del passato, per lo più su scala locale (Favier, Granet-Abisset 2009; Pfister 2009; Janku, Schenk, Mauelshagen 2012; Rohr 2013; Pastore 2018). È stata così ricostruita la lunga durata di memorie carsiche, riemergenti – almeno nella documentazione superstite – in occasione di eventi analoghi verificatisi anche a distanza di decenni, ed è stato dimostrato che in alcune aree la trasmissione della memoria favorì l’elaborazione e la diffusione di pratiche di prevenzione o di risposta: memorie e pratiche talora così presenti nelle culture locali, nei comportamenti sociali, nelle prassi istituzionali, da spingere alcuni storici a parlare di una «cultura del rischio» ante litteram.

Queste osservazioni conducono però a un altro problema: quello della memoria, dei molteplici modi in cui società e culture diverse l’hanno fissata, conservata, rielaborata e usata. Dagli anni ’80 del secolo scorso abbiamo assistito a un’esplosione di discorsi sulla memoria e di studi sulle pratiche memoriali, vale a dire su testi, monumenti, oggetti, pratiche in cui una certa comunità ritiene di vedere simboleggiato il proprio passato. Quasi sempre il punto di partenza di questi studi sono i lavori di Michel Halbwachs sui quadri sociali della memoria, cioè sui modi in cui la cultura condivisa e le interazioni sociali danno forma e senso ai ricordi individuali; e quelli di Jan Assmann, che nella formula «memoria culturale» ha voluto racchiudere quel complesso di riti, miti, monumenti etc. che svolgono un ruolo di mediazione simbolica tra la sfera individuale e quella istituzionale, e tra le diverse generazioni, all’interno di una certa cultura.

D’altra parte, la memoria istituzionalizzata riguarda per lo più traumi collettivi: monumenti e giornate della memoria sono quasi sempre dedicati alle vittime di guerre, stragi, deportazioni etc. E le memorie relative a tali eventi sono spesso in competizione tra loro: nel discorso pubblico s’impongono, in genere, le interpretazioni del passato favorite da determinati rapporti di potere, logiche di controllo sociale, strategie identitarie, progetti di egemonia politica (Alexander 2012; Violi 2014). E se i condizionamenti esterni, ideologici, politici sono ben evidenti quando si tratta di fissare il ricordo di guerre, eccidi, deportazioni o dittature, si possono rilevare scarti tra il discorso pubblico e le esperienze individuali anche quando il trauma è causato non da altri uomini bensì dalla violenza della natura. Anche all’indomani di terremoti, alluvioni e altre calamità si possono cioè individuare quei processi sociali e culturali di selezione e di omologazione, o di vera e propria distorsione, che ricompongono le esperienze individuali in immagini e racconti condivisi delle sofferenze collettive, ricalcati su schemi consolidati e riconoscibili.

Ora, in relazione agli eventi del XX e dell’inizio del XXI secolo gli storici dispongono di fonti in abbondanza per ricostruire questo processo di elaborazione sociale dei traumi collettivi: da un lato le dinamiche della comunicazione del secondo Novecento hanno dato un rilievo sempre maggiore all’esperienza della sofferenza, alle testimonianze delle vittime di guerre e catastrofi, con le quali i mezzi d’informazione hanno teso a creare un’immediata empatia, ancorché spesso effimera (Boltanski 1993; Sontag 2003); dall’altro il memory boom dei decenni a noi più vicini ha condotto alla valorizzazione delle testimonianze individuali, che sono pervenute a rivestire un ruolo etico, quasi sacrale, prima nel contesto dei processi ai responsabili della Shoah e poi anche in altre sedi (Barberis 2019; Gribaudi 2020). La possibilità di analizzare e confrontare le tante testimonianze individuali, elaborate in racconti e sistemate nei tanti archivi multimediali creati negli ultimi decenni, consente di decostruire le macro-narrazioni connesse alle ideologie e ai nazionalismi del XIX e XX secolo, che molte di quelle voci avevano compresso o distorto.

Ben più arduo, invece, è ricostruire i processi di fissazione delle memorie condivise delle catastrofi nelle società di antico regime. Nelle fonti della prima età moderna è molto più difficile ritrovare le tracce delle esperienze traumatiche, delle sofferenze individuali o collettive, sia perché il più delle volte esse erano espresse in testi e discorsi altamente formalizzati, con rare concessioni – rispetto ai secoli a noi più vicini – alla risonanza soggettiva di determinati eventi; sia perché la diffusa credenza nella Provvidenza permetteva a molti di sublimare il dolore in qualcosa che poteva anche essere ricordato come benefico (Walsham 2012; Kuijpers et al. 2013, pp. 1-23; Pollmann 2017, pp. 159-184). D’altra parte, un’analisi che non si limiti alle sole fonti di taglio narrativo e più facilmente accessibili, ma che confronti tra loro fonti diverse, consente di riportare alla luce quelle esperienze e memorie individuali, soggettive che, variamente rielaborate, via via perdevano i loro lineamenti peculiari e si caricavano di significati altri contribuendo alla costruzione di influenti letture delle esperienze calamitose. Analizzando e confrontando tra loro queste testimonianze, e mettendole a confronto con le pratiche sociali, con la logica di certe istituzioni, con le funzioni attribuite a certe infrastrutture, si ha la percezione dell’importanza che le società di antico regime spesso attribuivano alla memoria di determinate calamità, conservandole e trasmettendole. Certo, sulla possibilità di custodire e ravvivare tali memorie e di sviluppare determinati comportamenti preventivi o adattivi incideva il tipo di rischio cui la società era esposta – la sua frequenza, il modo più o meno repentino in cui si manifestava, la presenza di segnali precorritori, etc. Ma in ogni caso in molte di queste fonti, dietro il velo degli elementi religiosi, simbolici o mitici attinti a una cultura condivisa, si può scorgere la consapevolezza che singoli e gruppi avevano della loro vulnerabilità a determinati rischi, nonché del carattere ricorrente di determinati fenomeni distruttivi: una consapevolezza derivata dall’esperienza delle calamità che nel passato si erano abbattute su una certa società e su un certo territorio.

Riferimenti bibliografici

Alexander J. (2012), Trauma. A Social Theory, Cambridge-Maiden, Polity Press.

Assmann J. (1997), La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Torino, Einaudi.

Barberis W. (2019), Storia senza perdono, Torino, Einaudi.

Boltanski L. (1993), La souffrance à distance. Morale humanitaire, médias et politique, Paris, A.M. Métallié.

Favier R., Granet-Abisset A.-M. (2009), Society and Natural Risks in France, 1500-2000, in C. Mauch, C. Pfister (eds.), Natural Disasters, Cultural Responses. Case Studies toward a Global Environmental History, Lanham, Lexington Books, pp. 103-136.

Gribaudi G. (2020), La memoria, i traumi, la storia. La guerra e le catastrofi del Novecento, Roma, Viella.

Halbwachs M. (1997), I quadri sociali della memoria, Ipermedium, Napoli (ed. or. Parigi 1925).

Janku A., Schenk G.J., Mauelshagen F. (eds.) (2012), Historical Disasters in Context. Science, Religion, and Politics, London – New York, Routledge.

Kuijpers E., Pollmann J., Müller J., van der Steen J. (eds.) (2013), Memory Before Modernity. Practices of Memory in Early Modern Europe, Leiden, Brill.

Pastore A. (2018), Racconti di catastrofi e violenze in Valtellina. Nella memoria della guerra dei Trent’Anni, in «Rivista Storica Italiana», CXXX, 3, pp. 860-893.

Pfister C. (2009), Learning from Nature-Induced Disasters: Theoretical Considerations and Case Studies from Western Europe, in C. Mauch, C. Pfister (eds.), Natural Disasters, Cultural Responses. Case Studies toward a Global Environmental History, Lanham, Lexington Books, pp. 17-40.

Pollmann J. (2017), Memory in Early Modern Europe (1500-1800), Oxford, Oxford University Press.

Rohr C. (2013), Floods of the Upper Danube River and Its Tributaries and Their Impact on Urban Economies (c. 1350-1600): The Examples of the Towns of Krems/Stein and Wels, in «Environmental History», XIX, 2, pp. 133-148.

Snowden F.M. (2019), Epidemics and society. From the black death to the present, New Haven – London, Yale University Press.

Sontag S. (2003), Regarding the Pain of Others, New York, Penguin Books.

Violi P. (2014), Paesaggi della memoria. Il trauma, lo spazio, la storia, Milano, Bompiani.

Walsham A. (2012). History, Memory, and The English Reformation, in «The Historical Journal», 55, pp. 899-938.

Walter F. (2009), Catastrofi. Una storia culturale, Costabissara, Angelo Colla ed.


[1] Questa tendenza è denunciata in molti degli interventi ospitati dal blog Storie virali, https://www.treccani.it/magazine/atlante/speciali/Storie_virali/Storie_virali.html.

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