“Inciampi e speranze” – Luigi Mascilli Migliorini – Università degli studi di Napoli “L’Orientale”

Nell’imminenza della Assemblea di Perugia anticipo qui il testo del mio articolo che uscirà sul prossimo numero della rivista “Il capitale culturale”.

È facile comprendere come sulla questione della interdisciplinarietà delle riviste, intesa sia nella dimensione oggettiva – riviste che ospitano per la loro scelta culturale contributi che si potrebbero classificare di saperi o, ahimé, più burocraticamente di Settori scientifico-disciplinari diversi – sia nella dimensione soggettiva – studiosi che per la natura delle loro ricerche e delle loro curiosità intellettuali si trovano ad essere accolti in riviste appartenenti (orrore!) a Settori scientifico-disciplinari diversi tra loro –, il sistema di valutazione abbia mostrato tutta la sua costitutiva e problematica rigidità. E lo abbia mostrato su un punto, anzi su un tema, tutt’altro che irrilevante. L’interdisciplinarietà, sembra banale ripeterlo, rappresenta una delle acquisizioni metodologiche e delle pratiche di lavoro più largamente discusse e messe in opera da parte delle discipline umanistiche da ormai quasi mezzo secolo. Sia che essa venga realizzata attraverso la partecipazione di studiosi di diverse competenze e sensibilità alla trattazione di un argomento che richiede uno sforzo collettivo di riflessione plurale per essere autenticamente affrontato, sia che si solleciti il singolo studioso ad acquisire conoscenze, metodi e paradigmi di ricerca che vadano al di là non solo del suo specifico disciplinare (e meno che mai del suo solo Settore scientifico-disciplinare!) ma anche dei protocolli di indagine, per così dire, del suo sapere complessivamente assunto, la interdisciplinarietà ha rappresentato una acquisizione preziosa e oggi irrinunciabile in aree di ricerca che, con fatica e con non pochi e suggestivi dibattiti al proprio interno, ha così abbandonato l’idealtipo del ricercatore solitario e onnisciente, e più esattamente ha affiancato ad esso forme di lavoro collettivo e apprezzamento per gli attraversamenti e gli incroci disciplinari che sono oggi moneta corrente del lavoro di noi tutti. E varrà la pena, per concludere questa parte del ragionamento, ricordare che la disattenzione valutativa verso i “prodotti” che scaturiscono spesso da questo tipo di ricerche – lavori collettanei, risultati di iniziative convegnistiche, seminariali etc. – è totale e aggiunge a questo ragionamento ulteriori motivi di preoccupazione.

Insomma, salutato come lo strumento di innovazione della ricerca universitaria, la spada di Artù che avrebbe fatto giustizia delle malformazioni del passato, spalancando porte verso orizzonti più aperti, internazionali (dove, sia detto per inciso, nozione e pratica delle “fasce A” sono sostanzialmente ignoti o profondamente diversi per modi e finalità), distruggendo i recinti degli specialismi dentro i quali si esercitava l’autocratismo baronale, il sistema di valutazione inciampa su una pietra ben visibile, una pietra miliare del cammino che le discipline umanistiche hanno fatto – penso solo, nel mio ambito, alle pluridecennali riflessioni ed esperienze di meticciato della storia “imperialista” con le altre scienze sociali – per assumere una fisionomia più ricca e più adeguata alle proprie specifiche esigenze conoscitive e alle attese ed esigenze della società.

Ed è inciampato perché non poteva non inciampare, perché le logiche profonde che ispirano questo sistema di valutazione e lo rendono così visibilmente rigido rispetto ad un mondo in felice situazione di movimento e talvolta anche, inevitabilmente, di contraddizione, non potevano non portarlo che a inciampare. Provo a spiegarmi meglio facendo, come si dice, un “caso di specie” relativo proprio alla questione della valutazione delle riviste di “fascia A”. Nello scorso giugno 2017, nella normativa concernente la valutazione della composizione dei Collegi di Dottorato e, quindi, del loro accreditamento all’allora ciclo XXXIII (la situazione è rimasta identica anche per l’attuale ciclo XXXIV), ci si è trovati di fronte ad un paradosso. La normativa sui Dottorati ha favorito in questi anni l’accorpamento di vecchi Dottorati a struttura spesso fortemente connotata dal punto di vista dei saperi praticati, in Dottorati più vasti e sostanzialmente, seppur in varia forma a seconda dei singoli casi, interdisciplinari. Bene, uno degli indicatori per la valutazione della qualità del Collegio era il numero di articoli su riviste di fascia A di ciascuno dei suoi componenti, ma questo numero veniva automaticamente presentato nella scheda di compilazione dell’afferenza con riferimento al solo SSD di appartenenza del componente. Insomma, si volevano Dottorati interdisciplinari, si volevano a questo punto – si suppone – professori in grado di scambiare e praticare l’interdisplinarietà, ma li si valutava solo nello specifico ambito di SSD. Di fronte all’incongruenza palese, e alle critiche che essa aveva suscitato, si è fatto marcia indietro. Si è accolta, appunto, la nozione estesa di “fascia A” in virtù della quale contano, per la valutazione del singolo, tutte le sue pubblicazioni che posseggono questo criterio, indipendentemente dal SSD, ma con una postilla. Questa normativa – veniva spiegato – non può applicarsi al superamento delle mediane per l’Abilitazione scientifica nazionale perché essa è costruita intorno alla valutazione della produzione in uno specifico SSD.

Ed ecco l’inciampo, perché è evidente che si sacrifica in questo modo ogni lavoro che manifesti, come si diceva prima, interessi, curiosità, rapporti di collaborazione, in senso interdisciplinare. Se io scrivo un articolo di Storia moderna che per le sue circostanze di nascita e per la natura del suo argomentare è ospitato – che so? – in una rivista di Storia della filosofia, esso non mi varrà per il superamento delle mediane ASN. Giovane ricercatore quale io non sono, ma quale mi piacerebbe essere, a questo punto rinuncio a occasioni di lavoro così penalizzanti, mi tengo alla larga anche da quelle riviste “generali” di antica e solida tradizione che però spesso fanno fatica ad avere plurimi inserimenti tra le riviste di fascia A dei singoli SSD, e mi metto in fila per essere pubblicato dalle assai più rassicuranti riviste specialistiche appartenenti per certo al SSD le cui mediane dovrò presto o tardi superare.

Si può immaginare qualcosa di più rigido, schematico, nocivo della mobilità, dell’attraversamento, che è oggi la cifra nuova e forte della ricerca in area umanistica? Tanto più che il rimedio sarebbe facile. E’ stato proposto, è stato rigettato e si presenta, peraltro, come una pura estensione della formula adottata per la valutazione dei Collegi dottorali alla valutazione delle mediane ASN. Lo ripropongo qui, anche sulla scorta delle riflessioni che su questo tema hanno impegnato la Sisem, la Società per lo studio della storia moderna che oggi ho la responsabilità di presiedere, e le altre Società presenti nel Coordinamento delle Società storiche presso la Giunta centrale per gli studi storici: un Albo nazionale delle riviste di fascia A, come riferimento valevole per il superamento delle mediane ASN. Sarà poi compito delle Commissioni dei singoli SSD procedere, come è sempre accaduto e come accade tuttora con riferimento alle monografie o ai contributi in volume o alle stesse riviste di fascia A quando sono generali e possono quindi avere un riconoscimento plurisettoriale, alla valutazione della congruità o meno del contributo presentato al giudizio rispetto ai caratteri specifici del SSD.

Se l’Albo nazionale sembra troppo “eversivo” (in realtà non lo è per nulla), si può pensare, come il Coordinamento delle società storiche ha già realizzato e come è stato presentato all’attenzione della presidenza Anvur, ad albi estesi frutto di riconoscimenti reciproci tra settori disciplinari appartenenti anche ad aree Cun diverse tra loro. Questo significa che l’attuale soluzione individuata per l’Area 10, con la suddivisione interna in sub-aree può essere considerata un passo, timido, una soluzione interlocutoria che non risolve la sostanza del problema, ma genera ulteriori attese (come quella già manifestata all’interno dell’area 10 di estensione oltre i suoi confini, verso altre aree con le quali costruire altre ipotesi di sub-aree) che verrebbero molto meglio soddisfatte da una soluzione “aperta” quale è quella che qui viene nuovamente indicata.

Le ragioni per le quali questa soluzione viene pregiudizialmente respinta sono molte, ma contengono quasi tutte quelle che mi sembra di poter ritenere essere la radice profonda della crisi dell’attuale sistema di valutazione. Nato in una situazione che definirei “emergenziale”, anche a ragione dei motivi di ordine finanziario che la raccomandavano, figlia di una crisi economica strutturale del sistema-paese, la valutazione ha assunto la facies di una riorganizzazione della spesa pubblica in un settore in cui, come in molti altri, si riteneva esserci largo margine di “spreco”. Di esso veniva imputato un “ceto baronale” non meglio identificato che andava riportato a norme e controlli più severi. Questa sostanza aveva, come sempre accade, una superficie “retorica” fatta di modernizzazione, internazionalizzazione, ricambio generazionale. Ed era, è bene dirlo, vera sia la sostanza che la retorica. Solo che un sistema di valutazione è altro, nella sua autenticità più profonda, da questo. Esso non può nascere dalla diffidenza verso la comunità, le comunità scientifiche, ma deve partire da esse. Non può essere un sistema “dall’alto”, ma deve essere un sistema che si forma all’interno stesso della comunità, con tecniche e forme della sua espressione e rappresentanza che sono ancora, in Italia, tutte da studiare. Deve corrispondere a un sistema universitario che il legislatore ha voluto fondare sulle autonomie e che quindi deve far “respirare” queste autonomie senza lasciarle però a se stesse e alle proprie, certo spesso discutibili, derive. E i modi di questo “governo delle autonomie” è esso pure tutto ancora da studiare e da sperimentare. Deve immaginare che, una volta usciti, se si è usciti, dall’emergenza il problema non è solo quello di spendere bene quello che c’è, ma di spendere di più in un settore, quello della ricerca e dell’insegnamento universitario che da tempo mancano di un’autentica politica e programmazione degli investimenti. Deve comprendere che “internazionalizzare” non significa solo scrivere in inglese (assai spesso a pagamento) e valutare in inglese. Significa utilizzare risorse e strumenti di comunicazione internazionale di cui, ancora una volta, i protagonisti sono i membri della comunità scientifica, membri assai spesso autorevoli, o semplicemente dinamici, che su quell’autorevolezza e su quel dinamismo hanno costruito, in assenza spesso di vere risorse a disposizione, reti di scambio intellettuale, di ricerche condivise, di apprezzamenti e circolazioni a livello internazionale.

La ricerca è una cosa viva e solo chi la pratica ne conosce i mutamenti incessanti, i dislocamenti nello spazio e negli oggetti dei campi di indagine. L’emergere di nuovi valori e di nuovi soggetti, il deperire dei vecchi. Continuare nella rigidità dell’attuale sistema, immaginando che la superfetazione continua di norme e di indicatori possano fare altro che ingessare un corpo vivente, rendendo ancor più difficile di quanto oggi sia la sua sopravvivenza, è il rischio attuale. Liberare la ricerca e restituirla ai suoi attori, così da consentire che quelle speranze di rinnovamento poste a premessa della nascita di un sistema di valutazione in Italia, speranze condivise da tutti, perché tutti conoscevamo bene errori, privilegi, inefficienze, del mondo nel quale eravamo stati formati, non si trasformino in una delusione talvolta rancorosa, talvolta semplicemente ma più pericolosamente, rinunciataria.

Luigi Mascilli Migliorini