Nell’ottica braudeliana, il Mediterraneo diviene da fine Cinquecento-inizi Seicento uno spazio periferico, subordinato agli interessi delle economie dell’Europa occidentale atlantica, ormai rivolte alla conquista dei mercati globali. Da alcuni anni, tuttavia, diversi studi propongono un’altra immagine del Mediterraneo, quella di una regione in cui gli attori locali hanno ancora numerosi spazi per dispiegare la loro attività in maniera sostanzialmente autonoma. Se la supremazia delle economie atlantiche non è rimessa in discussione, questa rilettura offre una visione meno passiva delle economie mediterranee settecentesche.
Svariati tipi di studi contribuiscono a questa revisione storiografica. In primo luogo, diverse ricerche hanno messo in evidenza la capacità di operatori locali mediterranei di strutturare traffici e mercati – che si tratti dei Genovesi studiati da Luca Lo Basso o da Annastella Carrino, o dei navigatori greci su cui i lavori di Gelina Harlaftis e dei suoi dottorandi hanno fornito elementi decisivi. Inoltre, certi prodotti mediterranei, come il corallo studiato da Francesca Trivellato o le perle di vetro veneziane di cui Pierre Niccolò Sofia sta ricostruendo i circuiti dalla produzione alla consumazione finale, hanno ancora una certa rilevanza sui mercati mondiali. Accanto all’imprenditorialità mediterranea, tuttavia, è proprio il persistente interesse di paesi e attori ‘atlantici’ per i mercati e i prodotti mediterranei ad attestare la loro rilevanza.
Gli studi di Leos Müller e Dan Andersen hanno sottolineato l’importanza dei mercati dell’Europa meridionale e del Mediterraneo per le flotte svedesi e danesi – di cui si ricorderà che sono, accanto alla inglese, alla francese e alla olandese, le più importanti nel Settecento. Accanto al commercio di importazione e d’esportazione, il trasporto intra-mediterraneo offre ampi margini di profitto agli armatori nordici, soprattutto quando i loro paesi adottano una politica di neutralità, come è il caso dell’Olanda, della Svezia e della Danimarca per quasi tutto il Settecento.
Più recentemente, diversi studiosi si sono interessati alla navigazione americana nel Mediterraneo. In effetti, se le navi nord-americane commerciavano già con la penisola iberica e i porti italiani all’epoca coloniale, protette dall’attività corsara dei Barbareschi dalla bandiera inglese, l’indipendenza degli Stati Uniti permette di constatare l’importanza che un late-comer atlantico attribuisce alla protezione dei suoi interessi nel Mediterraneo ancora a fine Settecento. In questo senso, l’attività diplomatica (trattati di pace), lo stabilimento di una rete consolare e la guerra contro Tripoli (1801-05) costituiscono una serie di indizi rivelatori, in un’epoca in cui gli Americani, ormai esclusi dai circuiti interni all’impero britannico (e soggetti quindi ai Navigation Acts che impediscono loro di integrare il commercio mediterraneo a quello con la Gran Bretagna) cercano di rinforzare la loro presenza in altre regioni del globo. Nel Mediterraneo, dove gli Americani avevano una bilancia commerciale favorevole già in epoca coloniale, i capitani della Nuova Inghilterra trovano crescenti opportunità di nolo per le loro navi. Come già per Svedesi e Danesi, i noli permettono di aumentare i profitti e ridurre i rischi di un commercio con un’area distante, soggetta all’incertezza di una distanza-tempo di diversi mesi che rende vetusta l’informazione relativa ai mercati mediterranei già nel momento in cui essa perviene al di là dell’Atlantico. Favoriti dalle guerre rivoluzionarie e napoleoniche (1793-1815), gli Americani approfittano del contesto più ancora degli Scandinavi, nella misura in cui gli Stati Uniti riescono a preservare la loro neutralità fino al 1812. Le radici dell’interesse americano per il Mediterraneo, manifestato tra l’altro, dopo la seconda guerra mondiale, dalla presenza costante della sesta flotta, sono da ricercare al crepuscolo dell’epoca moderna.