“Risorgimento e Mezzogiorno: una polemica sterile” – Giuseppe Poli – Università degli Studi di Bari Aldo Moro

È un dato acquisito che la toponomastica costituisce un riferimento interessante per lo studio e la riflessione sul passato recente e remoto. A tal proposito, mi limito a soffermare l’attenzione sulla curiosità e sulle conseguenti considerazioni che la toponomastica urbana può suscitare anche nel più distratto degli osservatori. Percorrendo le strade delle città italiane e meridionali è capitato a tutti di imbattersi in vie intitolate a Cavour, Mazzini, Garibaldi, Cairoli, Pisacane ecc. e, passando per Bari e provincia, al Marchese di Montrone, a Domenico Nicolai o ad eroi immolatisi alla fine del Settecento come Mario Pagano, Ignazio Ciaia, Giuseppe Albanese, Emanuele De Deo e tanti altri, il cui elenco riconduce al loro impegno civile per la causa risorgimentale. Altrettanto dicasi per le lapidi apposte su alcuni palazzi o per le intestazioni di strade rievocanti episodi o momenti di quel periodo come via XX Settembre, imprese come quella dei Mille, eventi bellici come Magenta, Solferino, Custoza ecc. Alla lettura di queste intitolazioni chiunque richiamerebbe alla mente con le proprie reminiscenze scolastiche quei personaggi e avvenimenti, giustificandone l’utilizzazione nello stradario urbano.

A distanza di centocinquant’anni dall’unificazione nazionale e a oltre due secoli dall’inizio del movimento risorgimentale, è venuto in mente di dare spazio anche agli antieroi di quel periodo in una sorta di pacificazione nazionale del “vogliamoci tutti bene”.

Sull’onda della cosiddetta rivisitazione della storia meridionale da parte di alcuni interpreti di quell’epoca è stato inaugurato un vero e proprio filone di studi sulla cosiddetta “controstoria dell’Unità d’Italia”. La fortuna editoriale di alcuni pamphlets, dovuta anche all’impostazione accattivante della narrazione sui fatti e sui problemi del Risorgimento italiano (di tanto in tanto infarcita di citazioni tratte dalla storiografia accademica, anche per avere qualche supporto «scientifico» a sostegno delle proprie tesi), ha creato un vero e proprio movimento di opinione.

A luglio di due anni fa, nel Consiglio regionale pugliese fu avanzata la proposta di introdurre «una giornata della memoria per ricordare le vittime dell’Unità d’Italia e i paesi rasi al suolo» durante le fasi più concitate della repressione del brigantaggio da parte del Regio esercito. Il giorno prescelto fu indicato nel 13 febbraio, quando, nel 1861, cadde la fortezza di Gaeta e il re Francesco II di Borbone e la regina Maria Sofia (che vi si erano rifugiati dopo l’arrivo di Garibaldi a Napoli il 6 settembre dell’anno precedente) furono costretti a recarsi in esilio a Roma, ospiti del Papa.

La mozione fu accolta dalla maggioranza dei consiglieri regionali e fece il giro di altre regioni meridionali, circolando in Abruzzo, Molise, Basilicata, Sicilia e Campania, trovando facile terreno di coltura presso un pubblico privo di approfondite conoscenze storiche. In tal modo rivangare un passato e i pregi di una dinastia per presunti meriti dovuti a effimeri primati, propagandati come risultati di straordinaria eccellenza, in un mare di tradizionalismo alieno da qualsiasi apertura a progetti di trasformazione sociale, civile e culturale, significa dare spazio a sentimenti di recriminazione che non hanno alcuna ragione di esistere.

Così, ad essere ragionevolmente consequenziali, potremmo avere, tra non molto, strade intitolate a Michele Pezza (detto Fra Diavolo), a Gaetano Coletta (alias Gaetano Mammone), a Pasquale Romano, fino a Carmine Crocco Donatelli, a Nicola Summa (alias Ninco Nanco), a Giuseppe Caruso ecc. e a tanti altri protagonisti negativi che hanno contrappuntato la storia meridionale!

Alla luce di quanto si è appena detto si ribadisce che la mozione approvata il 4 luglio 2017 dal Consiglio regionale della Puglia, intesa ad istituire una «giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia», era del tutto inopportuna. Per i significati e le interpretazioni che simbolicamente ne derivano, la data del 13 febbraio concorre a rinfocolare la polemica sui modi e sulle conseguenze negative derivate al Mezzogiorno in seguito all’Unità, rispolverando un sensazionalistico risentimento per «la fine di un Regno» considerato erroneamente una realtà di «prosperità» diffusa.

Il Risorgimento fu una fase della nostra storia che si protrasse nella penisola italiana per un sessantennio, dalla fine del Settecento all’Unità. Nel Mezzogiorno esso conobbe la sua prima sperimentazione nella breve durata della Repubblica napoletana. In quelle circostanze, il tentativo promosso da quei patrioti per abbattere le strutture del mondo feudale fu vanificato dall’opposizione delle forze più retrive e «rifulsero» le nefandezze perpetrate dalle insorgenze paesane e dalle truppe della Santa Fede, antesignane di tutti i difensori del vecchio ordine. Con la caduta della Repubblica napoletana si consumò il triste destino di una generazione di intellettuali meridionali con i suoi martiri afforcati a Napoli e nelle isole nei mesi successivi. La loro condanna disonorò per sempre un grande «soldato» le cui imprese sono eternate da un monumento a Trafalgar Square. Nei decenni successivi la restaurata monarchia borbonica venne meno in altre due occasioni (nel 1821 e nel 1848) agli impegni assunti con i propri sudditi. I nomi dei meridionali che per la causa nazionale sacrificarono la vita o furono debilitati nel fisico e nello spirito da anni di detenzione nelle carceri borboniche di Ischia, Nisida e Procida (per non parlare di quelle ubicate nelle province), contro le quali il conservatore Gladstone elevò la sua riprovazione, sono custoditi nelle carte d’archivio e nei volumi dedicati a quelle vicende, oltre ad essere impressi, a futura memoria, nella toponomastica urbana di tutti i centri, piccoli e grandi, del Mezzogiorno d’Italia e di altre città della penisola. Quelle intitolazioni testimoniano visivamente il grave errore di voler celebrare una data come il 13 febbraio! Con essa si vogliono riabilitare le ragioni di coloro che allora rappresentavano la parte peggiore e che si schierarono per la permanenza di una situazione generale non più sostenibile. Anche il brigantaggio, sul quale emotivamente si pone un’attenzione di populistico riscatto delle plebi contadine meridionali, fu un fenomeno complesso, strumentalizzato dalle forze allora contrarie all’Unità. Gli studi più accreditati sull’argomento hanno opportunamente precisato la realtà dei fatti che alcuni esegeti di quel periodo intendono rivedere in una chiave di stravagante riabilitazione delle motivazioni che ne facilitarono l’esplosione.

Ma quella data si collega, surrettiziamente, alle recriminazioni sulle conseguenze negative del processo unitario che sotto il profilo socioeconomico avrebbe danneggiato il Mezzogiorno. Di conseguenza emerge la lunga lista dei «primati» sulle positive iniziative esistenti nel Regno borbonico, dimenticando che, per esempio, la tratta Napoli – Portici (1839) rappresentava un «giocattolo» per il sovrano e la famiglia reale e che nello stesso periodo altre realtà europee stavano dando luogo ad un processo di sviluppo economico fondato proprio sull’installazione della rete ferroviaria, allora diventata il volano dell’industria pesante che «pacificamente conquistava» alla rivoluzione industriale l’Europa continentale. Sulla società e sull’economia meridionali la più recente storiografia ha proposto interessanti contributi e rivisitazioni che hanno documentato lo stato effettivo delle cose.

A prescindere da qualche contesto in cui esistevano forme di economia più avanzata, simili a quelle di altre aree più dinamiche della penisola e dell’Europa, il Regno, purtroppo, era angustiato dalla pesante eredità di un lungo passato. Nonostante la presenza di queste eccezioni, sulle quali sarebbe troppo impegnativo soffermarsi, il Mezzogiorno rimaneva una realtà fondamentalmente legata all’agricoltura che, peraltro, non presentava zone, significativamente estese, caratterizzate da una incisiva vivacità e trasformazione delle sue strutture tradizionali. Il latifondo cerealicolo e quello alberato che da nord a sud delle province pugliesi caratterizzava, per esempio, gran parte del paesaggio agrario ne era una delle più emblematiche dimostrazioni. Le riflessioni di Carlo De Cesare (1859) su questi aspetti consentono di comprendere lo stato in cui versavano le campagne e i ceti sociali che ad esse erano strettamente legati. Quelle annotazioni, che cronologicamente seguono le precedenti puntualizzazioni di Giuseppe Maria Galanti (1791) e della Statistica murattiana (1811) sulla società e sull’economia rurale del Mezzogiorno continentale, anticipano le relazioni molto più dettagliate riportate nelle inchieste ottocentesche postunitarie sulle condizioni dei ceti contadini. Esse illustrano con numerosi elementi di riscontro una serie di aspetti risalenti all’eredità consegnata dai secoli passati e confluita nel processo di unificazione nazionale. Né possono essere strumentalizzati altri meriti come quelli delle considerevoli riserve valutarie o altre amenità sulla tenuità del sistema fiscale. La lettura dei saggi di Matteo De Augustinis (1833) e di Mauro Luigi Rotondo (1834) dovrebbero far riflettere sulle politiche adottate dai Borbone e sulla loro controproducente paura di novità nel senso più ampio del termine.

Le stime sull’accentuazione dei divari socioeconomici che si materializzarono dopo l’Unità tra Nord e Sud vanno inquadrate nelle politiche allora svolte dal nuovo Stato italiano. Dietro questo scenario restava il mondo dei contadini con tutte le sue contraddizioni e le sue difficoltà, e non è un caso se i problemi di quella società rurale sono giunti fino ad epoche recenti.

La fragilità dell’economia meridionale era evidente anche nel settore manifatturiero e se esso fu smantellato dalla politica economica del nuovo Stato unitario ciò fu una dimostrazione della sua debolezza e della sua scarsa competitività sul piano internazionale. Il regime di libero scambio cui aveva aderito in precedenza lo Stato sabaudo, uniformandosi al trattato commerciale di Cobden-Chevalier stipulato tra Francia e Inghilterra con la clausola della nazione più favorita, diventò a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento la politica economica adottata dalla maggior parte degli stati europei. La sua estensione consequenziale anche alle province meridionali non fece altro che evidenziare i difetti e le deficienze del suo precario apparato industriale.

Inoltre va ricordato che alle difficoltà consolidate da secoli nel Mezzogiorno preunitario si aggiunsero quelle determinate dalle congiunture negative del secondo Ottocento e sulle quali il processo risorgimentale aveva ben poco da farsi addebitare. Sullo sfondo di questa realtà agiva una mentalità poco incline alle innovazioni e ad accettare, tranne in alcuni casi, quanto di nuovo si profilava all’orizzonte su scala europea. Forse è il caso di considerare anche alcune stratificazioni mentali e atteggiamenti comportamentali radicatisi nei secoli antecedenti, ma il discorso a questo punto diventa più complesso e va ben oltre la cosiddetta «giornata della memoria» che, per come è stata proposta, non può essere presa in considerazione da parte di chi ha una conoscenza meno episodica ed epidermica di come sono andate allora le cose. Resta il disappunto per il credito accordato alla sedicente «controstoria dell’Unità» piuttosto che alle ricerche fondate sui documenti d’archivio e su una seria metodologia d’indagine.