A che cosa serve la storia? Apparentemente banale, ma certo mai usurata, la domanda cade oggi nell’universo contraddittorio che abitiamo e ci restituisce risposte che sembrano, ma forse non sono, diverse tra loro. A nulla, si dice da più parti, invocando la difficile condizione dell’insegnamento della storia nelle nostre scuole, denunciando la riduzione delle ore di didattica, continuamente erose da discipline più utili (pensiamo alle conoscenze tecnico-scientifiche o all’apprendimento delle lingue straniere) per muoversi nella vita quotidiana, nella vita “vera”. “Eccesso di presente”, si aggiunge: quasi che la storia fosse solo una commovente operazione di conservazione del ricordo, un pio gesto di omaggio ai defunti e non nascesse, piuttosto, dal presente, dal suo interrogarsi su se stesso e, insoddisfatto, delle scarne risposte ricevute, pronto ad allargare i confini, anche temporali delle proprie domande. E il presente, infatti, ci restituisce l’altra parte della questione. Studenti inappetenti nelle aule scolastiche si consegnano con piacere alle rievocazioni storiche offerte dalle serie Fantasy. Sognano gladiatori o Troni di spade con la stessa passione con la quale altre generazioni si mescolavano alle avventure dei Tre moschettieri o a quelle di Robin Hood. Lettori avviliti dalla lettura di libri spesso mal scritti, si rivolgono a opere scritte per il piacere di avere un pubblico, poco curandosi se l’autore sia un famoso giornalista o un celebre storico, Così avvicinatosi ad una narrazione del passato, questo mondo composto spesso da delusi della storia “scolastica”, comincia allora a frequentare conferenze e rievocazioni, lezioni a volte spettacolarizzate con misura, veri e propri Festival della storia, proclamando un bisogno di storia che sembra, allo stesso tempo e al contrario, stare abbandonando luoghi e attori tradizionali.
A che cosa serve la storia non è, allora, una domanda apparentemente banale e non usurata. È semplicemente una domanda mal posta. Sarebbe più corretto chiedersi a che cosa serve non la storia, ma il passato, a quali insopprimibili domande dell’uomo esso continua a rispondere, forgiandosi strumenti e linguaggi che sono inevitabilmente destinati a mutare nel corso del tempo. Tanto più oggi, nell’epoca di una globalizzazione che ci mette a contatto con forme del rapporto con il passato che sono tra loro estremamente diverse, che non si affidano necessariamente all’uso della parola scritta, che slargano e confondono le cronologie a misura di esigenze di popoli (la più gran parte dell’umanità nel XXI secolo) che ad usare i canoni dentro i quali si è progressivamente ridotta la nostra idea di passato saremmo tentati di definire “senza storia”. Che storia ha un Maori vissuto per quarantamila anni nell’universo apparentemente immobile di un continente rimasto alle soglie della rivoluzione del neolitico? Che storia ha avuto un abitante degli altopiani africani prima che lo schiavismo lo introducesse nella computazione di calendari non suoi? Si possono raccontare quelle storie solo con la parola e la scrittura, o c’è altro che può raccontarle meglio? E soprattutto quanto queste domande ci toccano da vicino come abitatori di un mondo sempre più globale, toccano i nostri figli, nativi globali e; dunque, istintivamente portati a mescolare gli spazi e i tempi del mondo, incuriositi da narrazioni che asciugano l’importanza dello scrivere e persino del verbale a vantaggio di altre modi di comunicazione?
Il presente, come vedete, obbliga la storia a ripensarsi in profondità, senza voler, tuttavia, rinnegare la radice profonda, l’esigenza da cui quella storia -la storia accademica, la storia scolastica- ha preso vita nella cultura europea degli ultimi due secoli. Il presente, per quanto arrogante, è sempre toccato dalla solitudine e ciascuno di noi lo sa bene quando, nei crocevia dell’esistenza, proviamo a ritornare indietro nelle nostre vite e interrogando il nostro io passato cerchiamo di sbrogliare matasse che il tempo ha arruffato. Siamo esseri storici non perché sappiamo di date, di battaglie, di eroi, ma perché troviamo nell’idea che altri esseri sono già vissuti, e hanno attraversato glorie e sconfitte prima di noi, il conforto e la chiarezza per affrontare le nostre glorie e le nostre sconfitte. Non siamo soli nel mondo e non vogliamo essere soli nel tempo. Nani sulle spalle dei giganti, secondo una bella e famosa immagine, quelli che abitano il presente hanno il diritto di vedere più lontano assai meglio di quelli che lo hanno preceduto, ma sanno che senza quelle spalle robuste che li sorreggono finirebbero accecati dalla polvere dei giganti in rovina.