“Sulla definizione del paesaggio agrario in età moderna, con particolare riferimento al caso meridionale” – Salvatore Barbagallo – Università del Salento

Il paesaggio può essere definito come una delle tante varianti dei molteplici spazi che, per condizioni antropiche e per intervento della natura, si diversificano nel tempo. Basta scorrere l’indice del suggestivo e intramontabile classico dell’opera, ancorché ecletticamente concepita da Emilio Sereni, sulla Storia del paesaggio agrario italiano1 per rendersi conto di come questa multiforme gradazione di territori arricchisca il panorama delle classificazioni sia dal punto di vista diacronico che da quello sincronico.

La storia, dunque, come deposito di fenomeni di eventi, secondo una icastica similitudine ideata da Luigi Mascilli Migliorini in un suo recente intervento2, è anche una fonte di accumulo di paesaggi. Non a caso, lo stesso Sereni in apertura del suo celebre e citato lavoro richiama un passo di Giacomo Leopardi tratto dall’Elogio degli uccelli, inserito nelle Operette morali, nel quale il poeta di Recanati riflette che

[…] ora in queste cose, una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le città, e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme; è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura. Dicono alcuni, e farebbe a questo proposito, che la voce degli uccelli è più gentile e più dolce, e il canto più modulato, nelle parti nostre, che in quelle dove gli uomini sono selvaggi e rozzi; e conchiudono che gli uccelli, anco essendo liberi, pigliano alcun poco della civiltà di quegli uomini alle cui stanze sono usati3.

Seguendo queste digressioni, possiamo concludere che l’uomo vive una scissione tra la magnificazione della sua potenza, che egli traduce nella perpetuazione nelle sue azioni, e la caducità delle stesse. Questa condizione di transitorietà spinge gli uomini a imprimere dei segni visibili come se questi potessero costituire un rifugio e al tempo stesso una rappresentazione della loro alterità. In tal modo proprio un raffinato scrittore come Georges Perec coglieva questa ambivalenza dello spirito. Scrive, infatti: “vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti”, ma, proprio per questo, “tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato”. In fondo, l’impossibilità di delineare un’alterità dello spazio fa sì che esso diventi “un dubbio”, un ambiente inafferrabile, e per questo motivo, con una punta di nostalgia e di disperazione, l’autore quasi fosse un’implorazione accenna che “lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo”.

I territori, i paesaggi non sono perenni: essi stabiliscono una dialettica carica di tensioni tra il riconoscibile di ciò che è stato, l’indifferenza verso ciò che sta per cambiare, una drammatica liricità nei confronti di ciò che non ci appartiene, ovvero, di come sarà. Ciò indurrà Perec ad affermare che “i miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà: niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno, l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria, guarderò senza riconoscerle alcune foto ingiallite dal bordo tutto strappato […]. Come la sabbia scorre tra le dita, così fonde lo spazio. Il tempo lo porta via con sé e non me ne lascia che brandelli informi”. E proprio per sfuggire all’oblio, alla coazione di azioni che non articolano una trama un senso del suo costituirsi che occorre “scrivere: cercare meticolosamente di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”4.

I paesaggi, dunque, diventano segni visibili del rapporto complesso e problematico che essi stabiliscono col sostrato sociale5 di cui sono una diretta espressione. Attraverso questi segni, celati nei differenti regimi colturali e dei sistemi di conduzione, il paesaggio può diventare una chiave interpretativa per delineare i quadri territoriali e gli equilibri sociali investiti dal processo di modernizzazione delle economie agricole.

Le disparità dei livelli e andamenti dello sviluppo fra i vari ambiti territoriali possono essere attribuite a varie ragioni: la lontananza dai mercati attorno ai quali si sono sviluppate le economie – mondo, il radicamento del regime feudale, il rafforzamento di una struttura latifondistica e, infine, lo squilibrio che si è creato tra la produzione delle risorse alimentari e la crescita della popolazione6. Nel Nord, pur in presenza di un’attività agricola che opera in un ambito di tecniche conosciute e quindi non innovative, si riescono a utilizzare al meglio tutti i fattori produttivi. In effetti, l’uso della coltura maidica ha favorito il sostentamento delle popolazioni e, al tempo stesso, la commercializzazione dei prodotti frumentari i quali venivano prodotti attraverso una quota modesta di investimenti7. Mentre nel Sud lo sviluppo di un’agricoltura estensiva dei cereali, delle colture legnose e la pratica dell’allevamento ha imposto un modello economico fondato su un massiccio impiego di investimenti e di capitali che finivano per soggiacere ai capricciosi movimenti dei mercati8. Queste scelte si riverberarono con drammaticità nel “lungo periodo” producendo una divaricazione tra i regimi agrari ed economici settentrionali e quelli meridionali.

La crescita della popolazione offre un indicatore abbastanza evidente delle differenze esistenti tra le economie agricole italiane. Riscontriamo, infatti, una crescita demografica più irregolare, intensa e problematica nel Sud, soprattutto nello stabilire un rapporto equilibrato tra abitanti e risorse alimentari, rispetto a un andamento meno impervio e con un saldo positivo tra nascite e morti nel Nord. In sintesi, la crescita meno cospicua, però più stabile e solida, del Nord Italia “ha messo in moto un meccanismo di sviluppo delle sussistenze poco costoso in termini economici ma straordinariamente efficace. La più intensa crescita demografica del Mezzogiorno non ha trovato una soluzione altrettanto risolutiva: la via delle colture arbustive e della mercantilizzazione esponeva quest’area, priva di una base di produzioni di sussistenza capace di espandersi elasticamente, a rischi molto gravi e, alla fine, a un blocco duraturo dello sviluppo”9.

I regimi colturali dell’area meridionale tra il XVI e il XVIII secolo, pur in presenza di una pervasiva struttura feudale, rilevano profili estremamente variegati, ma all’interno di questa magmatica differenziazione possiamo cogliere alcuni aspetti che connotano una maggiore o minore modernizzazione delle multiformi condizioni agrarie. Infatti, in quelle aree dove prevale il latifondo cerealicolo oppure la pastorizia transumante, riscontriamo un tipo di agricoltura fondata su criteri estensivi, dove predominano rapporti di produzione tradizionali. Invece, nei territori dove si avverte la preponderanza delle colture arbustive e arboree, rileviamo una maggiore dinamicità nei sistemi di conduzione agraria. Soprattutto nelle aree dove si coltivano gli olivi prevale la piccola proprietà contadina che conduce questi piccoli pezzi di terra con criteri intensivi, il cui prodotto verrà successivamente commercializzato attraverso l’ampia rete in connessione con la domanda che si forma sui mercati del nord Europa.

Attraverso lo studio del paesaggio agrario meridionale possiamo verificare, dunque, quali sono i regimi agrari interessati da una più intensa modernizzazione e quali, invece, sono quelli soggiacenti a un tipo di attività tradizionale.

Nel Regno di Napoli, soltanto nel 1806 venne abolita la feudalità10 grazie ad alcuni incisivi provvedimenti, che si rifacevano allo spirito della legislazione francese, promulgati dal nuovo re Giuseppe Bonaparte. Ma gli esiti di tali interventi non sortirono, nel lungo periodo, effetti benefici sull’agricoltura meridionale, a causa di un’incompleta oppure parziale applicazione di tutta quella legislazione inerente alla quotizzazione dei demani e ai provvedimenti appropriati a supporto del credito agrario e a sostegno della piccola proprietà contadina. Queste condizioni determinarono una riproposizione della grande proprietà latifondista e taluni territori dove prevaleva la coltivazione dell’olivo vennero connotati col termine di “latifondo alberato”11. Pertanto, nel corso del XIX secolo, il paesaggio agrario caratterizzato dal dominio dell’arborato non individuava necessariamente le regioni più dinamiche. Bisognerà quindi aspettare la fine del secolo, con l’esplosione dell’attività vitivinicola, per differenziare quei territori che avviarono un nuovo processo di modernizzazione attraverso la coltivazione della vite.

Note

Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Roma-Bari, Laterza, 1991.

Ricordo di Giuseppe Galasso, presso l’Accademia nazionale dei Lincei, dell’11 gennaio 2019.

G. Leopardi, Elogio degli uccelli, in Operette morali, a cura di Laura Melosi, Milano, BUR Rizzoli 2008, p. 446.

G. Perec, Specie di spazi, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, pp. 110-111.

G. Galasso, L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Lecce, Argo, 1997, pp. 21-23.

6 G. Levi, L’energia disponibile, in Storia delleconomia italiana, vol. II, L’età modernaverso la crisi, a cura di Ruggero Romano, Torino, Einaudi, 1991, p.153.

Ivi, p.154.

8 Ivi, pp. 164-165.

Ibidem. Sui caratteri dello sviluppo bloccato o di un differente modello di sviluppo dell’economia agricola meridionale si veda: G. Poli, Un’economia agraria sviluppo bloccato in Id., Territorio e contadini nella Puglia moderna. Paesaggio agrario e strategie produttive tra XVI e XVIII secolo, Galatina, Congedo Editore, 1991, pp.157-184. Su questi aspetti si rinvia anche a L. Palumbo, Baroni ribelli e indocili vassalli – Appunti per una storia di Surano tra Sei e Settecento, Bari, Puglia Grafica Sud, 1996; Id., Periferia e mercati – Il Basso Salento tra Sei e Settecento, Bari, Puglia Grafica Sud, 1996.

10 Con la legge n. 130 del 2 agosto 1806. La legislazione, avente per oggetto l’eversione della feudalità, può essere consultata nella sezione: Leggi, decreti, rescritti, e ministeriali sull’abolizione della feudalità nelli Reali domini di qua del Faro, in Repertorio amministrativo ossia collezione di leggi decreti reali rescritti ministeriali di massima regolamenti ed istruzioni sull’amministrazione civile del Regno delle due Sicilie, compilato dal Barone Pompilio Petitti, vol. 1, Napoli 1856, pp. 582-727.

11 Il termine è stato ripreso, da Giovanni Tocci, da uno scritto di Manlio Rossi Doria, Cos’è il Mezzogiorno agrario, in B. Caizzi, Nuova antologia della questione meridionale, prefazione di Gaetano Salvemini, Milano 1973, p. 188; cfr. G. Tocci, Per un nuovo studio dell’economia agricola salentina nella seconda metà del Settecento, in “Critica storica”, VI (1967), l, pp. 65-66. Giuseppe Poli annota che “dove la coltura dell’olivo è più diffusa, essa si configura con i caratteri tipici della monocoltura praticata su ampie superfici appartenenti a grossi proprietari legati al commercio d’esportazione, come accade per l’entroterra gallipolino. Anche in questo caso, tuttavia, l’uliveto non può essere correttamente definito come coltura specializzata poiché in effetti non è ancora tale a metà Settecento. In certe zone come, appunto, intorno a Gallipoli può rappresentare la coltura più importante, senza superare, però, i limiti dell’anarchia agronomica delle aree estensive a coltura promiscua”, cfr. G. Poli, Il paesaggio agrario, in Quadri territoriali equilibri sociali e mercato nella Puglia dei Settecento, a cura di G. Poli, Galatina 1987, p. 61.